Blocco siti via DNS: OpenDNS, Cloudflare e Google a confronto

L'intensificazione della lotta alla pirateria online ha spostato l'attenzione dalle responsabilità degli ISP verso i fornitori di DNS pubblici, come Google, Cloudflare e OpenDNS. In Europa, decisioni giudiziarie impongono a questi operatori il blocco dei domini associati a contenuti illegali. Le reazioni variano.

L’inasprimento delle misure contro la pirateria online ha portato a una trasformazione significativa nella gestione delle infrastrutture di rete: i riflettori, un tempo puntati sugli ISP (Internet Service Provider), oggi si spostano sempre più verso i resolver DNS pubblici come quelli offerti da Google, Cloudflare e Cisco OpenDNS. In Europa, le sentenze dei giudici di Italia, Francia e Belgio hanno imposto a questi operatori di intervenire attivamente nel blocco dei nomi di dominio associati a contenuti illeciti. Il modo con cui le aziende reagiscono a tali provvedimenti rivela un mosaico di risposte disomogenee, con conseguenze che vanno ben oltre i confini dei singoli Paesi.

Mentre ai provider che forniscono l’accesso a Internet agli utenti, sono adesso sempre più chiamati anche a bloccare anche indirizzi IP “univocamente associati” ad attività illecite (distribuzione non autorizzata di contenuti protetti dalle norme a tutela del diritto d’autore), nel caso dei DNS pubblici l’argomentazione centrale è, rispondendo alle richieste di traduzione dei nomi di dominio a livello internazionale, giocano un ruolo critico nel permettere o negare l’accesso ai contenuti Web, e quindi devono anch’essi conformarsi agli obblighi legali.

OpenDNS: ritiro strategico dal mercato

La risposta più radicale è arrivata da Cisco OpenDNS. In seguito a un’ordinanza del tribunale francese che imponeva il blocco di numerosi domini legati alla pirateria sportiva, OpenDNS ha deciso di cessare completamente il servizio nel territorio francese, una misura poi replicata anche in Belgio.

Questo approccio draconiano, benché temporaneo, segnala una netta opposizione al ruolo di “polizia della rete” che verrebbe imposto ai provider DNS, e sottolinea la difficoltà tecnica e politica nell’applicare blocchi selettivi senza compromettere la neutralità dell’infrastruttura.

Cloudflare: conformità tramite meccanismi alternativi

Da parte sua, Cloudflare adotta una strategia più flessibile. Pur affermando di non modificare direttamente le risposte del suo resolver 1.1.1.1, l’azienda utilizza “meccanismi alternativi” per conformarsi alle ordinanze.

Il risultato pratico è che gli utenti che tentano di accedere a domini bloccati visualizzano un errore “HTTP 451 – Unavailable for Legal Reasons“, che rimanda anche a Lumen Database, una piattaforma che fornisce trasparenza sui contenuti rimossi per motivi legali. Questa soluzione tenta di bilanciare l’adempimento delle richieste legali con la necessità di informare gli utenti e mantenere una certa trasparenza operativa.

Google DNS: silenzio operativo e trasparenza assente

Nel caso di Google, il resolver pubblico 8.8.8.8 rifiuta le query DNS per i domini oggetto delle ordinanze giudiziarie, senza restituire alcun messaggio informativo all’utente.

Dal punto di vista tecnico, il dominio risulta semplicemente “non risolvibile”, generando un errore del browser simile a quello causato da problemi di connettività. Questo approccio, pur efficace nel bloccare l’accesso, non rispetterebbe le linee guida sulla trasparenza indicate da alcuni tribunali, come quello belga, che ha esplicitamente richiesto il reindirizzamento verso una pagina informativa dedicata.

Ovviamente, le limitazioni non solo ridotte ai soli server DNS che rispondono agli IP 1.1.1.1 e 8.8.8.8 ma all’intera gamma di resolver gestiti dai provider citati, sia su IPv4 che su IPv6.

Una questione di responsabilità e giurisdizione

Il dibattito sul blocco DNS tocca un nervo scoperto: qual è il ruolo dei fornitori di infrastruttura nella regolamentazione dei contenuti online? I DNS pubblici, pensati inizialmente per offrire velocità, sicurezza e privacy agli utenti, si trovano ora in una posizione ambigua, costretti a scegliere tra la conformità locale e la coerenza globale del servizio. La posizione geografica dei server, la distribuzione dei nodi e il fatto che, spesso, le aziende coinvolte siano multinazionali con sede negli USA pongono problemi di giurisdizione extraterritoriale e potenziale conflitto normativo.

La situazione europea rappresenta un laboratorio legale e tecnico che potrebbe anticipare sviluppi analoghi anche Oltreoceano, dove è già in discussione una nuova proposta di legge per il blocco dei siti pirata tramite DNS pubblici. Se approvata, tale normativa costringerebbe i resolver statunitensi a implementare meccanismi di filtraggio simili a quelli europei, con il rischio di un effetto domino globale.

A quel punto, la necessità di standard operativi comuni, di meccanismi trasparenti e di garanzie per gli utenti diventerebbe imprescindibile per evitare una frammentazione tecnica e normativa dell’infrastruttura alla base di Internet.

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