Sicurezza dei dispositivi IoT: come difendere l’infrastruttura critica nell’era degli attacchi persistenti

L'evoluzione delle minacce informatiche contro le infrastrutture critiche, con particolare attenzione ai dispositivi dell'Industrial Internet of Things (IIoT). Evidenziamo come questi dispositivi, spesso sottovalutati, rappresentino un punto debole cruciale.

Negli ultimi dieci anni, il panorama della sicurezza informatica globale ha assistito a un’escalation senza precedenti di attacchi mirati contro infrastrutture critiche. Dal blackout dell’Ucraina nel 2015 attribuito a un attacco informatico di matrice statale, fino agli incidenti che hanno coinvolto impianti nucleari, reti di trasporto pubblico e catene di approvvigionamento alimentare, è evidente che la superficie di attacco si è estesa ben oltre i confini del cyberspazio. Al centro di questa nuova vulnerabilità si trovano i dispositivi dell’Industrial Internet of Things (IIoT), oggi sempre più presenti e spesso scarsamente protetti.

Con il proliferare di dispositivi connessi e il moltiplicarsi delle minacce — statali, criminali od opportunistiche — ignorare il problema dei device IoT equivale a costruire un’infrastruttura su fondamenta instabili. È tempo di pretendere dispositivi basati su una piattaforma solida.

IoT: milioni di dispositivi interconnessi possono rappresentare un punto debole

Il numero di dispositivi IoT attivi è passato da circa 10 miliardi nel 2019 a quasi 19 miliardi nel 2024, e si prevede che supererà i 38 miliardi entro il 2030. Molti di questi non sono gadget da salotto, bensì componenti chiave per la gestione di infrastrutture: valvole in centrali chimiche, sensori nelle reti idriche, sistemi HVAC (Heating, Ventilation, Air Conditioning), ascensori, macchinari diagnostici e perfino centrifughe nucleari. In questo scenario, ogni singolo dispositivo mal configurato o vulnerabile rappresenta un potenziale vettore di attacco che può tradursi in danni fisici su larga scala.

La convinzione che i dispositivi IIoT siano troppo semplici o “non interessanti” per essere attaccati è una pericolosa illusione. È vero che una valvola industriale non gestisce dati sensibili come numeri di carte di credito, ma il suo controllo può avere conseguenze devastanti. Gli attacchi DDoS coordinati che puntano a impedire il normale funzionamento delle telecamere IP vulnerabili, sono solo un esempio del potenziale distruttivo che si cela dietro una sicurezza trascurata.

Difendere i dispositivi IIoT: tra igiene digitale e difesa stratificata

Garantire la resilienza dei dispositivi IIoT richiede un approccio bifronte: buone pratiche di cybersecurity di base e l’adozione di strategie di difesa capaci di agire in profondità.

Le misure fondamentali includono:

  • Rimozione delle credenziali predefinite e uso di password robuste.
  • Aggiornamenti regolari del firmware.
  • Firma crittografica obbligatoria per ogni aggiornamento.
  • Tracciabilità della catena di fornitura del software.

È diventato oggi un imperativo tracciare con precisione quali componenti software — spesso open source — sono integrati nei dispositivi. La conoscenza puntuale delle versioni installate permette una valutazione rapida del rischio in caso di vulnerabilità note.

Difesa in profondità: oltre il perimetro

Affidarsi esclusivamente a una protezione perimetrale (“duro fuori, morbido dentro”) è insufficiente. Una strategia più solida prevede la creazione di strati concentrici di sicurezza: ciascun livello è chiamato a verificare l’integrità del successivo.

Il modello si ispira a un avvio a catena, in cui si parte da un livello interno minimale, proseguendo gradualmente verso livelli più complessi.

Il punto di partenza di questa catena è il cosiddetto Root of Trust, il livello più interno che non può essere verificato da altri e deve quindi essere intrinsecamente affidabile. Questa radice può essere realizzata a livello di firmware o direttamente in hardware (come nei nuovi SoC con RoT integrato). Deve essere immutabile o almeno protetto da modifiche non autorizzate.

L’attestazione remota e la verifica di integrità

Per accertarsi che ogni componente sia integro, è necessario uno strumento come il Trusted Platform Module (TPM), che implementa:

  • Memoria protetta (Shielded Locations) non modificabile.
  • Chiavi di attestazione (AK) legate all’hardware.
  • Firma crittografica delle evidenze raccolte.

Questo schema consente a un sistema esterno di confrontare le impronte digitali del software in esecuzione con un riferimento noto e verificato. L’uso combinato del TPM e delle firme digitali permette di smascherare qualsiasi tentativo di manomissione anche in presenza di malware sofisticati.

Automatizzare la risposta agli incidenti

La capacità di reagire a un’anomalia è fondamentale. Le opzioni includono:

  • Riavvio automatico del dispositivo.
  • Rollback ovvero ripristino automatico a uno stato sicuro noto.
  • Uso di watchdog autenticati, che controllano lo stato interno del dispositivo e ne dispongono il reset in caso di malfunzionamento.

Negli ultimi anni, le tecnologie Root of Trust, TPM e boot sicuro sono divenute sempre più diffuse. Oggi, persino chip embedded a basso costo includono funzionalità di sicurezza avanzata.

Questo approccio riduce drasticamente la barriera d’ingresso per produttori e system integrator, che possono così implementare “catene di fiducia” robuste in contesti industriali, sanitari e infrastrutturali.

Tuttavia, la semplice presenza dell’hardware non basta. Serve una collaborazione stretta tra progettisti di dispositivi, fornitori di software, system integrator e operatori di rete per assicurarsi che ogni anello della catena sia saldamente controllato.

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