Stiamo rivivendo il 1995: l’AI è il nuovo modem che può cambiare il mondo

Tracciamo un parallelo tra l’avvento di Internet nel 1995 e l’attuale ascesa dell’intelligenza artificiale, sottolineando come entrambe le tecnologie abbiano suscitato entusiasmi e timori analoghi.

C’è un suono che in tanti non hanno dimenticato: quello del modem che si connetteva a Internet in dial-up nel 1995. Un rumore metallico, seguito da secondi di silenzio sospeso, poi finalmente la connessione. Erano i toni di handshake, cioè segnali acustici modulati che servivano a stabilire un canale di comunicazione stabile tra il dispositivo dell’utente e il modem remoto del provider Internet. Pochi lo sapevano, ma quel gracchiare era il segnale di un cambiamento irreversibile.

A metà degli anni ’90, Internet era un esperimento più che una rivoluzione. Esistevano meno di 3.000 siti Web, quasi tutti testuali, spesso ospitati su server universitari. Scaricare un’immagine richiedeva minuti. L’idea di acquistare qualcosa online era considerata follia. Eppure, in quell’universo primitivo, si intravedeva già la scintilla del mondo che sarebbe arrivato in seguito: e-commerce, social media, streaming, lavoro da remoto. Quasi nessuno, tuttavia, riuscì a prevedere l’impatto reale della rete.

Da un lato c’erano i visionari come Nicholas Negroponte del MIT, convinti che nel giro di 5 anni avremmo vissuto con visori in testa e realtà virtuali a portata di mano. Dall’altro, gli scettici come l’economista Paul Krugman, che nel 1998 paragonava Internet al fax, destinato a un impatto marginale sull’economia globale.

Oggi, nel 2025, stiamo rivivendo il 1995, ma con un’altra tecnologia: l’intelligenza artificiale. E, ancora una volta, gli esseri umani si dividono tra profeti dell’apocalisse e visionari entusiasti.

Il paradosso dell’AI: rivoluzione o illusione?

Trent’anni dopo, stiamo vivendo un déjà-vu. Almeno chi ha cominciato a fare esperimenti sul Web da metà anni ’90 in avanti. L’intelligenza artificiale generativa è oggi ciò che Internet era nel 1995: una tecnologia in fase embrionale, esaltata da alcuni e invisa ad altri. C’è chi prevede la fine del lavoro umano, e chi parla di un’epoca di prosperità e automazione benefica. Alcuni vedono un’AI cosciente in arrivo, altri la considerano poco più di un motore predittivo, capace solo di imitare l’intelligenza.

Proprio come nel 1995, il rischio maggiore non è sbagliare previsione, ma credere che il futuro seguirà una linea retta.

Il rischio di leggere l’AI con gli occhi del presente

Nel 2016 Geoffrey Hinton, spesso definito “il padre dell’AI”, recente Nobel per la fisica, affermava che l’intelligenza artificiale avrebbe presto reso obsoleti interi mestieri. E oggi è co-firmatario di una moratoria mondiale contro la superintelligenza.

In realtà, molte mansioni non sono oggi tramontate per via dell’avvento dell’AI. Come spiega la ricercatrice Deena Mousa, la risposta è nel paradosso di Jevons: quando una tecnologia rende un’attività più efficiente, il consumo complessivo di quella risorsa tende ad aumentare, non a diminuire. L’automazione non elimina l’occupazione: la sposta e la espande, almeno finché la domanda cresce più velocemente della produttività.

Andrej Karpathy, uno dei pionieri dell’AI e massimi sostenitori del concetto di vibe coding (il termine l’ha inventato lui…!), sostiene come l’automazione colpisca prima le mansioni ripetitive, isolate e a basso rischio, non i lavori complessi e regolamentati. E come dimostrano gli studi dell’economista James Bessen, il destino occupazionale di un settore dipende da due forze opposte:

  • La crescita della domanda latente, cioè di quante persone o aziende desiderano quel bene o servizio ma non possono ancora permetterselo.
  • Il ritmo dell’automazione, ovvero la velocità con cui la tecnologia riduce la necessità del lavoro umano.

La domanda chiave diventa: in quali settori l’AI spingerà la domanda oltre i limiti naturali del mercato?

Durante la Rivoluzione Industriale, i telai meccanici resero i tessuti più economici e accessibili. Per un secolo, il lavoro nel settore tessile crebbe, finché la domanda di abiti non saturò.
Stesso destino per il ferro e l’acciaio, che registrarono un boom fino a quando i mercati si stabilizzarono. Solo l’industria automobilistica riuscì a mantenere la crescita più a lungo, perché la domanda globale — e la complessità del prodotto — restavano enormi.

Il “momento modem” dell’intelligenza artificiale: quando il rumore precede il vero cambiamento

Nel mondo del software, la domanda latente è ancora immensa. Milioni di piccole aziende non possono permettersi sviluppatori, e ogni idea software scartata per motivi di costo rappresenta un’opportunità. Con gli strumenti no-code basati su AI — da GitHub Copilot, Claude Code, fino agli agenti AI di OpenAI — il costo legato alla realizzazione di un’app si avvicina allo zero. Al netto comunque dei rischi, ben spiegati dagli ideatori di Jmix, in termini di manutenibilità del codice quando il progetto comincia a crescere.

Con buona pace di qualche analista finanziario che parla di un’AI ormai “satura”, di investimenti che andavano fatti qualche tempo fa, a nostro avviso ci troviamo ancora in una fase embrionale.

L’AI si trova ancora al suo “momento modem”: rumorosa, imperfetta, ma capace di aprire universi inediti. Alcuni settori vedranno esplodere l’occupazione, altri la vedranno scomparire. Alcuni prodotti diventeranno accessibili a tutti, altri spariranno insieme alle professioni che li producevano.

Proprio come Internet ha reso possibile dormire a casa di sconosciuti o guadagnarsi da vivere raccontando la propria vita online, l’AI creerà mestieri oggi impensabili. Non possiamo sapere quali, ma possiamo essere certi che la definizione stessa di “lavoro umano” cambierà.

Nuova bolla o fondamenta del futuro?

È vero, in tanto temono che l’AI stia alimentando una nuova bolla speculativa. Le somiglianze con la fine degli anni ’90 sono evidenti: startup con valutazioni miliardarie senza un prodotto concreto, capitali che fluiscono in ogni direzione, e aziende che aggiungono .ai al proprio nome come un tempo si faceva con .com.

Il fallimento di tante “dotcom non spazzò comunque via la preziosa infrastruttura che le realtà di fine anni ’90 costruirono. I cavi in fibra ottica, i data center, le dorsali di rete divennero la base su cui si eressero Google, Netflix, YouTube e tutto l’Internet moderno.

Oggi le Big Tech stanno investendo cifre colossali — quasi 500 miliardi di dollari l’anno in data center e chip — per costruire modelli AI e fare attività di inferenza, anche integrata con una vasta schiera di nuovi dispositivi hardware. Pure nel caso in cui parte della bolla dovesse scoppiare, le fondamenta resteranno, pronte a sostenere la prossima ondata d’innovazione.

Tuttavia, l’espansione è al momento guidata dalla domanda reale, non da pura speculazione. Ma basteranno due indicatori economici fortemente negativi — investimenti troppo alti rispetto al PIL e crescita dei ricavi rallentata — per ripetere la storia del 2000.

Come nel 1995, molti previsioni appariranno ridicole col senno di poi. Ma una cosa è certa: che si tratti di scetticismo o di euforia, l’AI è qui per restare.

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