Adobe è finita ufficialmente nel mirino di una class action negli Stati Uniti con la pesante accusa di utilizzo non autorizzato di opere protette da copyright per l’addestramento dei propri modelli di intelligenza artificiale.
La causa, depositata recentemente presso un tribunale federale della California, segna un nuovo capitolo nelle controversie legali che legano in modo indissolubile il boom dell’AI alla tutela della proprietà intellettuale, un trend che ha già interessato diverse altre grandi protagoniste del settore tecnologico.
Chi ha denunciato Adobe e perché
A promuovere l’azione legale è l’autrice Elizabeth Lyon, la quale accusa Adobe di aver utilizzato libri, compresi i suoi manuali dedicati al marketing di romanzi, senza alcun consenso per addestrare i sistemi dell’azienda.
La denuncia si concentra in particolare sugli algoritmi SlimLM, modelli linguistici di piccole dimensioni pensati per funzionalità di manipolazione documenti su dispositivi mobili, che sarebbero stati istruiti utilizzando anche copie pirata di testi protetti.
Da un punto di vista tecnico la questione appare complessa poiché Adobe non avrebbe selezionato i singoli volumi manualmente, ma si sarebbe affidata a enormi archivi di dati preconfezionati.
Secondo la documentazione dell’accusa, il dataset impiegato da Adobe è lo SlimPajama-627B, un derivato di RedPajama che contiene al suo interno un sotto-insieme noto come Books3, ed è proprio in questo archivio che risiedono le opere della querelante inserite senza autorizzazione né compenso.
L’azione legale, presentata a nome di tutti i detentori di copyright le cui opere sono state incluse in questi dataset, richiede un risarcimento economico la cui entità non è stata ancora specificata.
AI, tra denunce e accordi miliardari
Il caso Adobe si inserisce in un contesto più ampio dove le battaglie legali si alternano ad accordi economici di portata storica.
Vale la pena osservare che solo ad agosto Anthropic ha patteggiato nell’ambito di una class action analoga, accettando di pagare ben 1,5 miliardi di dollari ai detentori di copyright, la cifra più alta mai registrata in una causa per violazione del diritto d’autore in questo settore.
Tuttavia, mentre Google riceve diffide formali da Disney per l’uso non autorizzato di contenuti in modelli come Gemini e Veo, OpenAI ha intrapreso una strada diversa firmando un’intesa storica proprio con la multinazionale dell’intrattenimento.
Disney ha infatti investito un miliardo di dollari in OpenAI per permettere l’uso licenziato di oltre 200 personaggi sulla piattaforma Sora, pur imponendo filtri di sicurezza rigorosi ed escludendo l’uso di voci o somiglianze di attori reali.
Questa situazione evidenzia che il problema centrale non è l’intelligenza artificiale in sé, ma il controllo sui diritti e sulle modalità di sfruttamento commerciale, distinguendo nettamente tra chi paga per le licenze e chi utilizza dati senza adeguate misure di tutela.