Il confine tra ciò che consideriamo “privato” online e ciò che i fornitori di servizi e le forze dell’ordine possono ottenere si è progressivamente assottigliato. Una recente decisione della Corte Suprema della Pennsylvania ha sollevato un problema centrale: fino a che punto l’accettazione delle condizioni d’uso e delle politiche sulla privacy di un servizio come Google può essere interpretata come rinuncia a tutele costituzionali contro perquisizioni e sequestri?
La Corte USA ha infatti autorizzato l’uso di una tecnica chiamata “reverse keyword search” per identificare utenti che abbiano cercato specifiche parole o indirizzi, ottenendo da Google gli identificatori (ad esempio indirizzi IP) associati a quelle ricerche, senza richiedere un mandato tradizionale. L’episodio solleva questioni complesse sia sul piano giuridico sia su quello tecnico: cosa sono esattamente questi dati, come vengono raccolti e correlati, quanto sono affidabili e quali garanzie processuali e tecniche dovrebbero essere richieste per bilanciare sicurezza pubblica e diritti individuali?
Cos’è una “reverse keyword search” e come funziona
Una reverse keyword search, come accennato in precedenza, permette alle autorità di richiedere a Google (o ad altri provider) di cercare nei propri log tutte le istanze di ricerche contenenti una parola chiave specifica, restituendo metadati come:
- Timestamp della ricerca
- Indirizzo IP del dispositivo
- Cookie e identificatori di sessione
- ID dell’account Google (se autenticato)
- User-agent e dati di geolocalizzazione approssimativa
Si tratta di un meccanismo che, evidentemente, consente di associare una ricerca a una persona o a un dispositivo, senza mostrare il contenuto delle pagine visitate.
Passare da un indirizzo IP a una persona fisica: limiti tecnici
L’indirizzo IP, sebbene possa sembrare un identificatore univoco di un utente, presenta numerosi limiti che rendono l’identificazione diretta di una persona fisica complessa e spesso imprecisa.
Va detto, infatti, che lo stesso IP pubblico può corrispondere a persone diverse in momenti diversi. Inoltre, molti fornitori di servizi utilizzano NAT o CGNAT, permettendo a più dispositivi o utenti di condividere lo stesso IP: in questi casi, un singolo IP non individua univocamente un utente.
L’uso di reti WiFi aperte o hotspot pubblici aggiunge un ulteriore livello di incertezza, poiché più persone possono accedere simultaneamente alla stessa rete, spesso senza registrazione degli accessi.
Tecnologie di anonimizzazione come Tor o le stesse VPN mascherano completamente l’IP reale, sostituendolo con quello del server o del nodo di uscita, rendendo difficile ricondurre una ricerca al dispositivo originale. Infine, le reti mobili spesso assegnano IP dinamici tramite NAT, e la localizzazione basata su IP è solo approssimativa.
Per ottenere una conferma affidabile dell’identità di un utente è quindi necessario correlare più fonti di dati, come i log del provider di accesso a Internet, registri amministrativi o dati di autenticazione a servizi online, integrando questi elementi per ridurre i margini di errore e minimizzare il rischio di attribuire ricerche o attività a persone sbagliate.
La genesi del caso e la logica della Corte
La vicenda giudiziaria sviluppatasi negli USA (Commonwealth v. Kurtz) ha acceso un acceso dibattito sulla privacy digitale. Nel caso di specie, le autorità sospettavano che l’indagato potesse aver ricercato informazioni relative alla vittima su Google prima di commettere il reato. Tradizionalmente, la raccolta di dati così personali richiederebbe un mandato, ma la Corte ha sostenuto che l’utilizzo di servizi online implica una consapevolezza della raccolta e del monitoraggio dei dati da parte di fornitori come Google.
Secondo il pronunciamento, “è noto che siti web, applicazioni e provider di servizi Internet raccolgono e talvolta vendono dati degli utenti”. Da questa premessa, la Corte ha stabilito che l’accesso alle informazioni digitali può avvenire senza mandato quando l’utente ha già accettato le condizioni d’uso di un servizio, come nel caso delle ricerche su Google.
L’utilizzo del “reverse keyword search warrant” ha permesso alla polizia di ottenere da Google l’indirizzo IP degli utenti che avevano cercato informazioni relative alla vittima nelle ore precedenti al crimine.
Implicazioni per la privacy digitale
La decisione apre scenari complessi per gli utenti e i fornitori di servizi online:
- Il consenso implicito alle condizioni d’uso: L’atto di accettare termini di servizio molto lunghi e complessi potrebbe diventare una chiave legale per bypassare la protezione dei dati personali.
- Sorveglianza preventiva: Le autorità potrebbero monitorare le ricerche online per prevenire crimini, ma al prezzo di un’espansione della sorveglianza statale senza mandato.
- Sfide legali future: La sentenza potrebbe stimolare cause legali su scala federale, poiché la Corte Suprema potrebbe essere chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con il Quarto Emendamento, che tutela da perquisizioni e sequestri ingiustificati.
Impatto sugli utenti europei
Per gli utenti residenti nell’Unione Europea, la recente decisione americana rappresenta un potenziale rischio ma ovviamente non modifica (e non potrebbe farlo!) le regole del GDPR.
Tuttavia, il trasferimento dati verso gli USA potrebbe essere soggetto a restrizioni se i provider non garantiscono protezioni equivalenti, riaprendo una ferita mai rimarginatasi del tutto.
Le autorità americane potrebbero richiedere dati di cittadini UE, ma i provider devono valutare la conformità al GDPR prima di rispondere. Misure come pseudonimizzazione e crittografia diventano essenziali per minimizzare l’esposizione dei dati europei. Gli utenti europei possono comunque esercitare diritti di accesso, rettifica e opposizione alla profilazione in ambito GDPR.
USA ed Europa: un approccio differente
La distinzione tra modelli giuridici è netta: negli USA, la legge consente alle autorità di ottenere accesso ai dati con procedure spesso semplificate, basandosi sul presupposto che le informazioni memorizzate su server di terzi non godano dello stesso livello di protezione costituzionale (third-party doctrine). In Europa, invece, la privacy e la protezione dei dati sono diritti fondamentali (Carta dei diritti fondamentali UE, GDPR, Direttiva ePrivacy) e l’accesso ai dati degli utenti richiede sempre un’autorizzazione giudiziaria, deve essere proporzionato e limitato al minimo necessario, e prevede la possibilità per l’utente di essere informato dopo l’indagine.
La sovranità dei dati emerge come elemento cruciale: anche se fisicamente conservati in Europa, i dati gestiti da provider a stelle e strisce possono essere soggetti al CLOUD Act, mentre la crittografia end-to-end costituisce l’unica barriera tecnica efficace contro accessi non autorizzati. In combinazione, la sovranità giuridica europea e la cifratura forte sono necessarie per proteggere realmente i dati sensibili.
Strumenti come il Regolamento E-evidence (European Production Order) rafforzano la cooperazione giudiziaria tra Stati membri, garantendo procedure rigorose e proporzionali per l’accesso ai dati. Allo stesso tempo, piattaforme crittografate federate (XMPP con OMEMO) o servizi collaborativi in E2EE come CryptPad dimostrano come sia possibile coniugare sicurezza, privacy e produttività senza sacrificare la sovranità dei dati.