Il paradosso del compenso per copia privata nell'era dello streaming

Nonostante le abitudini di fruizione musicale si siano spostate sullo streaming, il compenso per copia privata aumenterà ulteriormente nel 2026.

Stai ascoltando musica in streaming? Allora stai pagando i diritti per la musica che hai ascoltato. Stai acquistando un SSD per il lavoro? Stai nuovamente pagando i diritti per la musica che hai ascoltato. Stai acquistando una chiavetta su cui depositare le ricerche del tuo corso di studi? Stai pagando per la terza volta i diritti per la musica che hai ascoltato. E non importa se ascolti musica, se ne ascolti molta o come la ascolti: pagherai più volte il tuo diritto di detenere una copia privata di tale musica, a prescindere da qualsiasi tua abitudine o intenzione. Non solo: quel che paghi sta per aumentare e colpirà presto anche il cloud e i prodotti ricondizionati, ma soprattutto hard disk e SSD. Quando? Questione di giorni, forse di ore.

Mentre l’Europa cammina verso un mercato unico digitale sempre più fluido, l’Italia sembra infatti intenzionata a rafforzare i confini di quello che l’Istituto Bruno Leoni ha definito come un vero e proprio “auto-dazio”. Il compenso per copia privata (così è definita la tariffa imposta sui supporti di archiviazione) sta per subire un aggiornamento tariffario che ignora completamente l’evoluzione tecnologica degli ultimi dieci anni, creando distorsioni di mercato che penalizzano il sistema Paese.

Dalla copia fisica allo streaming

Il fondamento giuridico del compenso per copia privata risiede nella possibilità, concessa all’utente, di duplicare un contenuto protetto (un brano musicale, un film) per uso personale. Tuttavia, i dati parlano chiaro: siamo nell’era dell’accesso, non del possesso. Secondo i report FIMI 2024/2025, lo streaming rappresenta ormai oltre il 67% dei ricavi del mercato discografico italiano, con oltre 95 miliardi di stream annui (+31% rispetto all’anno precedente). In questo contesto, la pratica di scaricare un file MP3 o un video per trasferirlo manualmente su una chiavetta USB o un SSD è diventata un’attività di nicchia e per molti versi obsoleta. Eppure, a fronte di una drastica riduzione delle copie private effettuate, il gettito richiesto dai beneficiari (SIAE in primis) non solo non diminuisce, ma punta a crescere.

Spotify - Video Musicali

Comunque lo si giudichi, insomma, il compenso per copia privata è un concetto strutturalmente anacronistico. Ciò nonostante, la sua applicazione non è in discussione e, anzi, dietro l’angolo c’è un aumento destinato a pesare (qui la bozza).

L’anomalia italiana

Il confronto con il resto dell’Unione Europea evidenzia una spaccatura profonda. In molti Paesi, le tariffe sono sensibilmente inferiori o legate a criteri di utilizzo molto più stringenti. In Italia, invece, si sceglie con decisione la strada di un prelievo più radicale, dove la soglia massima viene elevata e il peso diventa meno sostenibile anche e soprattutto per le attività di impresa.

Questa disparità genera una distorsione competitiva immediata: l’utente esperto, consapevole che su un dispositivo ad alta capacità il compenso può pesare in modo importante (più l’aggravio IVA), è spinto ad acquistare su piattaforme di e-commerce con sede legale all’estero o comunque con flussi di prodotto utili ad aggirare l’orpello italiano. Il risultato è un danno diretto ai retailer fisici e ai distributori italiani, che si trovano a dover competere con prezzi artificialmente gonfiati da una norma nazionale anacronistica e sempre più incisiva.

Il paradosso del doppio pagamento

Il nuovo decreto introduce un corto circuito logico: il prelievo sui servizi Cloud. Oggi l’utente paga già:

  • un abbonamento a piattaforme streaming che include già la remunerazione degli aventi diritto;
  • un compenso sul dispositivo hardware (PC, smartphone, SSD) acquistato per fruire del servizio;
  • un nuovo, imminente compenso sullo spazio Cloud dove i dati vengono archiviati.

Si configura così un extra-gettito paradossale: l’autore viene remunerato più volte per lo stesso potenziale consumo, nonché su abitudini d’uso del tutto improbabili. Mossa utile a compensare i mancati introiti dovuti alla pirateria? Sicuramente, ma far pagare tutti per gli ammanchi di qualcuno non è certo qualcosa che possa guidare il mercato in una forma equa e meritocratica. Semmai, gli aumenti vanno soltanto a compensare un sistema di gestione dei diritti che ha perso aderenza con la realtà e che, sulla scia di un sempre più pesante anacronismo, non consente di rispondere compiutamente alla realtà. Scegliere di rincarare la dose su questo obolo, insomma, non potrà che avere effetti distorsivi ulteriori.

Conclusioni: un’urgenza non più rimandabile

L’approvazione di questi aumenti rappresenterebbe un segnale di chiusura verso l’innovazione. Tassare la memoria – che sia un SSD da 2 TB o una semplice chiavetta USB – significa tassare la capacità dei cittadini e delle imprese di produrre e conservare valore digitale. In un momento di inflazione galoppante (nel 2026 sono attesi pesanti aggravi sulle RAM causati dai disequilibri originati dalla geopolitica), aggiungere un ulteriore carico fiscale su beni diventati di prima necessità per il lavoro e l’istruzione appare come una scelta che guarda al passato, ignorando deliberatamente che la “copia” è formalmente morta, ma la sua “tassa” invece gode al contempo di ottima salute.

Fonte: Istituto Bruno Leoni

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