Il Web è morto? Tim Berners-Lee lancia l’allarme sulla libertà digitale

Il Web, nato nel 1991 grazie a Tim Berners-Lee, è oggi dominato da poche grandi piattaforme che trasformano gli utenti in prodotti. Berners-Lee denuncia questa deriva, parla di privacy, diritti digitali e propone Solid, uno standard open source per restituire il controllo dei dati agli individui.

Il World Wide Web (WWW) è nato ufficialmente il 6 agosto 1991, quando l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web presso il CERN di Ginevra. L’idea del Web fu però concepita due anni prima, nel 1989, con la presentazione da parte di Berners-Lee dello storico documento “Information Management: a Proposal“. Il progetto mirava a sviluppare un sistema di condivisione di documentazione scientifica in formato elettronico utilizzabile indipendentemente dalla piattaforma, con standard come l’HTML e il protocollo HTTP. Berners-Lee decise fin dall’inizio di non brevettare la tecnologia, rendendo così il Web accessibile liberamente a tutti.

Oggi, a distanza di quasi 35 anni, Berners-Lee torna a chiedersi se quella visione si sia preservata o se, lungo il percorso, sia stata tradita. La sua risposta è amara: il Web è stato catturato da poche grandi piattaforme che hanno trasformato l’utente in prodotto, i dati personali in merce e l’interazione digitale in un meccanismo di dipendenza e sfruttamento.

La visione originaria di Tim Berners-Lee: un Web universale e gratuito

La forza rivoluzionaria del Web 1.0 stava nella sua universalità. La combinazione tra Internet e ipertesto permetteva di connettere documenti, persone e idee in modo semplice e accessibile. Ma per funzionare, il Web doveva essere usato da tutti, senza barriere economiche. Da qui la decisione, nel 1993, di rilasciare il progetto come di pubblico dominio, con un atto di generosità scientifica che ancora oggi rappresenta un unicum nella storia della tecnologia.

Il presupposto era chiaro: se chiunque poteva pubblicare, prima o poi sul Web ci sarebbe stato davvero “tutto”. Un archivio dinamico della conoscenza umana, costruito dal basso, che avrebbe favorito la collaborazione e la creatività globale.

Dalla promessa alla distorsione: il dominio delle piattaforme

Con l’avvento del Web 2.0 e dei social media, la dinamica si è rovesciata. Berners-Lee osserva che l’utente non è più stato al centro come creatore e proprietario dei propri contenuti, ma come fonte di dati da estrarre, profilare e rivendere. Gli algoritmi hanno iniziato a privilegiare non la qualità, ma l’engagement, alimentando polarizzazione, disinformazione e dipendenza comportamentale.

Per Berners-Lee, la “gratuità” che vediamo oggi è un inganno: i servizi digitali non sono realmente liberi, poiché il prezzo che paghiamo è la nostra privacy e la perdita di controllo sui nostri stessi dati.

L’inventore del World Wide Web, insignito del premio Turing nel 2016, non cita invece il Web 3.0 o Web3 che identifica un’evoluzione del Web basata su blockchain, criptovalute, smart contract e decentralizzazione. La trattazione di Berners-Lee, infatti, si concentra su diritti digitali, privacy e governance globale, tematiche che vanno oltre la semplice decentralizzazione tecnologica.

Solid: un modello alternativo di web personale

Per rispondere a questa deriva, Berners-Lee ha lanciato Solid (ne parlavamo addirittura nel 2018), uno standard open source sviluppato al MIT, che propone una rivoluzione silenziosa: restituire i dati agli individui.

Invece di essere dispersi in silos proprietari – il cardiofrequenzimetro che invia dati a un cloud chiuso, la banca che archivia altre informazioni in un formato incompatibile, i social che trattengono post e commenti – tutte queste informazioni verrebbero raccolte in un unico spazio personale, controllato dall’utente.

Le applicazioni non avrebbero più un accesso implicito e permanente, ma dovrebbero chiedere autorizzazione ogni volta. Solid vorrebbe segnare il ritorno a un principio fondamentale: “i tuoi dati li generi tu, quindi appartengono a te”.

Perché Solid non è mai decollato?

L’intento di Berners-Lee è davvero notevole ma ad oggi Solid non ha mai preso piede. E viene da farsi qualche domanda se sono passati diversi anni dalla prima presentazione a metà 2018.

La difficoltà principale risiede nella complessità intrinseca del modello: ogni utente deve gestire il proprio “Pod”, decidendo chi può accedere a quali informazioni, un compito che richiede attenzione e competenze tecniche che la maggior parte delle persone non possiede o non è disposta ad acquisire.

A questo si aggiunge l’assenza di un vero network effect: poche applicazioni hanno adottato Solid e, di conseguenza, l’ecosistema non ha mai raggiunto la massa critica necessaria per renderlo attrattivo.

Inoltre, il modello fatica a trovare incentivi economici convincenti, poiché grandi piattaforme e investitori preferiscono sistemi centralizzati in grado di monetizzare facilmente i dati degli utenti.

Anche le sfide tecnologiche, come la sincronizzazione dei dati, la sicurezza end-to-end e l’interoperabilità tra server, hanno rappresentato un ostacolo non indifferente. Infine, la cultura della privacy tra gli utenti è complessivamente, purtroppo, ancora limitata: molti non percepiscono l’importanza di avere il pieno controllo dei propri dati e preferiscono la comodità dei servizi tradizionali, accettando implicitamente la raccolta e la profilazione.

Solid, pur essendo tecnicamente valido e eticamente lungimirante, si è quindi trovato a operare in un contesto sociale, economico e culturale non pronto a supportarlo, relegandolo a una nicchia sperimentale più che a una vera alternativa al Web 2.0.

La nuova sfida: l’intelligenza artificiale

La riflessione si sposta poi sull’AI. Berners-Lee avverte che non possiamo ripetere l’errore commesso con i social network, lasciando che governi e regolatori arrivino in ritardo di dieci anni rispetto all’innovazione. L’intelligenza artificiale, se lasciata esclusivamente nelle mani di poche corporation, rischia di consolidare ulteriormente dinamiche monopolistiche e asimmetrie di potere. Ne parliamo anche nell’articolo sull’intelligenza artificiale spiegata facile.

Già nel 2017, Berners-Lee immaginava un’AI personale al servizio dell’individuo, con regole deontologiche simili a quelle di un medico o di un avvocato: obblighi legali, responsabilità, codici etici. L’opposto del modello attuale, in cui l’AI tende a lavorare per chi possiede i dati, non per chi li genera.

Per affrontare questa nuova rivoluzione tecnologica, l’informatico britannico propone una soluzione radicale: un’istituzione internazionale non-profit, sul modello del CERN, capace di coordinare ricerca, standard e regole globali per l’AI.

L’innovazione, secondo il padre del Web, non può essere lasciata solo al mercato e alla competizione tra giganti tecnologici, ma necessita di una cornice di collaborazione transnazionale, esattamente come accadde per la fisica delle particelle nel dopoguerra.

Recuperare lo spirito del 1993

Il messaggio di Berners-Lee è semplice ma potente: il Web funziona solo se funziona per tutti. Quella scelta compiuta al CERN più di trent’anni fa non fu un gesto di rinuncia, ma di visione: senza gratuità e universalità, il Web non sarebbe mai esistito e divenuto universalmente disponibile e accessibile.

Oggi, lo stesso principio deve guidare la sfida dell’AI e del futuro digitale. Servono volontà politica, coraggio e collaborazione globale.

E se riusciremo a ritrovare quello spirito originario, chiosa Berners-Lee, davvero il Web potrà tornare a essere simile a ciò per cui era stato progettato: uno strumento universale di creatività, collaborazione e progresso umano.

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