Diritto all'oblio: si può farlo valere anche quando il motore di ricerca non restituisce nomi e cognomi

Il Garante Privacy italiano stabilisce che Google deve attivarsi per la rimozione di un URL facente riferimento a un articolo lesivo della reputazione di un cittadino. Nonostante tale articolo non contenga nome e cognome dell'interessato, l'interessato ha comunque diritto a far valere le sue ragioni essendo identificabile per la carica che ricopre.

Con una storica sentenza, i togati della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – a maggio 2014 – hanno introdotto il cosiddetto diritto all’oblio in rete. I cittadini hanno il diritto di richiedere la rimozione del loro nominativo dai motori di ricerca, soprattutto se abbinato ad informazioni obsolete, lesive della propria immagine e del proprio buon nome.
Google (così come gli altri motori di ricerca) è obbligata a prendere singolarmente in esame ogni richiesta di rimozione ed esaminarla attentamente. Gli incaricati della società fungono da arbitri stabilendo in quali casi una richiesta di rimozione meriti di essere accolta ed in quali invece la domanda debba essere rigettata. Aspetto, questo, che da quando è stato introdotto il concetto di diritto all’oblio ha sollevato non poche riserve.

La novità è che il Garante Privacy italiano ha stabilito che il motore di ricerca deve attivarsi anche qualora un utente non fosse identificabile mediante nome e cognome ma, ad esempio, attraverso altri elementi. Con questo provvedimento, l’Autorità italiana ha accolto le ragioni di un professionista che si lagnava con il Garante del comportamento tenuto da Google nei suoi confronti.

Nel caso di specie, infatti, il professionista risultava identificabile nei risultati del motore di ricerca come presidente di una cooperativa ed era quindi piuttosto semplice per chiunque risalire al suo nome e cognome. Dal momento che, per di più, il soggetto in questione è stato assolto in via definitiva per tutti i capi di imputazione e con formula piena, il professionista ha pensato di far valere i suoi diritti presso Google chiedendo la rimozione degli URL facenti riferimento a siti web di terze parti.
L’URL in questione, come spiega il Garante, faceva riferimento a una notizia non più attuale e non aggiornata, relativa ad un rinvio a giudizio avvenuto dieci anni prima, riguardo al quale era poi però intervenuta una sentenza definitiva di assoluzione. “La permanenza in rete della notizia rappresentava, ad avviso dell’interessato, un gravissimo e irreparabile pregiudizio alla propria reputazione“.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha ritenuto le richieste del professionista meritevoli di essere accolte ordinando a Google di rimuovere entro 20 giorni “l’URL indicato nell’atto di reclamo quale risultato di ricerca reperibili in associazione al dato Presidente Cooperativa XX/Presidente XX.
Entro 30 giorni dalla data di ricezione del provvedimento, Google dovrà descrivere quali iniziative avrà intrapreso al fine di dare attuazione a quanto prescritto. Resta comunque facoltà di Google opporsi alla decisione rivolgendosi all’autorità giudiziaria.

Va detto che il diritto all’oblio resta comunque aggirabile usando le versioni straniere di tutti i più noti motori di ricerca, a partire da Google: Diritto all’oblio: Google potrebbe non dover rimuovere i link da tutti i suoi motori di ricerca.
Nell’articolo Pagine rimosse da Google, perché? abbiamo approfondito l’argomento spiegando in quali circostanze riferimenti a pagine web vengono eliminate dalle SERP ovvero le pagine dei risultati delle ricerche.

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