Free Software Foundation vuole che gli utenti siano davvero proprietari dei dispositivi che comprano

Gli utenti dovrebbero poter installare qualsiasi software su qualunque dispositivo hardware, secondo Free Software Foundation Europe. Che chiede anche maggiori responsabilità per i produttori, maggiore interoperabilità, apertura del codice e utilizzo di licenze libere.

Free Software Foundation (FSF) è la nota organizzazione che dal 1985 si impegna per la rimozione delle restrizioni sulla copia, redistribuzione e modifica sui software per gli elaboratori informatici. Nel 2020 aveva celebrato i suoi primi 35 anni in difesa del software libero.

La “filiale” europea di FSF, ovvero Free Software Foundation Europe (FSFE), è stata fondata nel 2001 per supportare il software libero in tutti i suoi aspetti, gli avanzamenti dei sistemi operativi basati su GNU, come GNU/Linux e sostenere l’adozione del software libero anche a livello politico.

In Europa “il vento” è cambiato e da tempo si sta cercando di investire su progetti aperti oltre che sul software libero. Così FSFE prova a cogliere la palla al balzo con una lettera aperta indirizzata innanzitutto ai legislatori e presentata “in copia” ai cittadini dell’Unione.

Secondo FSFE il diritto universale di scegliere liberamente i sistemi operativi, i programmi e i servizi è cruciale per una maggiore sostenibilità nella società digitale. In altre parole, se non si può installare il software che si desidera sul proprio dispositivo, significa che non lo si possiede.
I promotori dell’iniziativa auspicano insomma un intervento del legislatore europeo volto a rendere più aperti i dispositivi hardware di qualsivoglia produttori mettendo l’utente nelle condizioni di installare il software che preferisce.

FSFE evidenzia come il libero accesso all’hardware e al software determina quanto a lungo o quanto spesso un dispositivo può essere usato o riutilizzato. “Una maggiore longevità e la possibilità di riutilizzo dei dispositivi è necessaria per una società digitale più sostenibile“, si legge nel testo della lettera.

La tesi è che il diritto di installare e sviluppare qualsiasi sistema operativo e software che si desideri su qualsiasi dispositivo dovrebbe essere riconosciuto almeno a livello europeo: “qualsiasi ostacolo, sia esso legale, tecnico o di altro tipo che inibisca la possibilità di riutilizzare i dispositivi per qualsiasi scopo, non deve essere permesso“, si legge ancora.
I produttori dovrebbero essere obbligati a pubblicare driver, strumenti e interfacce sotto licenza libera per assicurare pieno accesso ai loro dispositivi, in qualunque situazione.

FSFE parla anche dei fornitori di servizi osservando che tanti dispositivi ancora funzionanti vengono oggi dismessi semplicemente perché i server dai quali dipendono vengono dismessi e non sono più supportati: “i servizi online, così come il software sui dispositivi connessi e le applicazioni, devono offrire interoperabilità e piena funzionalità rispetto alla destinazione d’uso iniziale di un dispositivo tramite l’uso di standard aperti“.
A questo proposito nella lettera si osserva che software e protocolli proprietari ostacolano la concorrenza tra i produttori, minano la riparabilità dei dispositivi e creano “un’incompatibilità artificiale tra diversi dispositivi all’interno della stessa infrastruttura. L’interoperabilità dei singoli dispositivi è cruciale per la creazione di infrastrutture informatiche adeguate, sostenibili e durature“. Tutti i temi cari alla Commissione Europea: si pensi ad esempio al tema del diritto alla riparazione dei dispositivi elettronici.

Vale la pena ricordare la recente approvazione del caricabatterie USB-C universale in Europa, approccio che ha visto alcuni produttori, tra cui Apple in prima linea, mettersi di traverso. La Mela ha fatto presente che sostituirà Lightning con USB-C nel 2023 anche se non è detto che piuttosto che adeguarsi non scelga di creare un iPhone senza porte (solo con il supporto per la ricarica wireless).

È quindi estremamente probabile che tante aziende possano fare le barricate per difendere il “nocciolo” del loro business e la loro proprietà intellettuale.

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