Nell’arco di decenni, poche strategie di Microsoft sono state così controproducenti come la gestione del passaggio da Windows 10 a Windows 11. Quello che sorprende maggiormente è come questa scelta si sia rivelata perdente su due fronti: per gli utenti e per l’azienda stessa.
Dal lancio di Windows 2000, Microsoft ha optato per un ciclo di vita lungo e prevedibile: cinque anni di supporto mainstream seguiti da cinque anni di supporto esteso. Tale politica, che dal 2012 si è estesa anche all’offerta più propriamente consumer, garantiva agli utenti un periodo di almeno 10 anni di aggiornamenti di sicurezza per ogni versione di Windows.
La filosofia sottostante si basava su un’altra colonna portante di Microsoft: la compatibilità hardware a lungo termine. Non era raro, infatti, riuscire a far girare Windows 10 su PC acquistati anche 10-15 anni prima. La combinazione di supporto prolungato e la compatibilità hardware hanno rappresentato per anni un fattore di fidelizzazione cruciale.
Windows 11: il brusco cambio di rotta e le sue conseguenze
Lo schema precedentemente seguito da Microsoft ha subìto un completo stravolgimento nel 2021, quando l’azienda ha annunciato Windows 11 con requisiti hardware drasticamente più restrittivi.
L’introduzione obbligatoria del supporto per il chip TPM 2.0, insieme a un controllo severo sulle CPU compatibili, ha escluso automaticamente la possibilità di aggiornare Windows 10 al nuovo sistema operativo su centinaia di milioni di PC perfettamente funzionanti e acquistati appena pochi anni prima.
Per molti utenti è stato come vedere svanire sotto i piedi un ciclo di vita garantito e ben noto da anni. Un colpo durissimo sia dal punto di vista pratico, sia per la fiducia verso il brand.
La comunicazione confusa e il lancio caotico di Windows 11
A rendere ancora più critica la situazione, la modalità di lancio di Windows 11, uno degli eventi di fatto più frettolosi e disorganizzati dell’intera storia di Windows. Annunciato nel giugno 2021, Windows 11 è passato dalla fase di Insider Preview a rilascio ufficiale in soli quattro mesi, con una comunicazione discontinua e spesso contraddittoria.
Un esempio emblematico è la confusione sui requisiti hardware. Inizialmente Microsoft aveva in programma di suddividere i requisiti in due “filoni”: soft floor e hard floor.
- Soft Floor. Rappresentava un insieme di requisiti tecnici più restrittivi, come il controllo dettagliato della compatibilità della CPU e la richiesta del TPM 2.0. Se un dispositivo non soddisfaceva le condizioni previste per il soft floor, l’aggiornamento a Windows 11 veniva sconsigliato, ma non completamente bloccato.
- Hard Floor. Livello minimo assoluto di compatibilità hardware per poter effettuare l’aggiornamento a Windows 11. Ogni PC compatibile con Windows 10 era aggiornabile a Windows 11, sebbene fosse prevista la visualizzazione di un messaggio che sconsigliava l’aggiornamento. Il percorso Hard Floor avrebbe assicurato ai possessori di computer costruiti tra il 2015 e il 2018 un percorso di aggiornamento che li avrebbe mantenuti operativi anche dopo la fine del supporto a Windows 10, il 14 ottobre 2025.
Lo schema previsto da Microsoft per l’arrivo di Windows 11 fu reso pubblico il 25 giugno 2021, quando un moderatore Microsoft sul forum di discussione della community di Windows ha rassicurato alcuni utenti preoccupati del mancato supporto di alcuni processori.
Peccato però che appena il giorno dopo, l’autore ha modificato il suo post per informare che le informazioni non erano più valide e che le pagine a cui faceva riferimento erano state rimosse (nel forum di Microsoft trovate un’ampia porzione di testo barrato).
I due schieramenti interni e la vittoria del rigore
Secondo alcune ricostruzioni, all’interno della dirigenza Microsoft si sono confrontate due visioni opposte:
- Una fazione favorevole a mantenere la tradizionale compatibilità estesa, accettando alcuni compromessi in termini di sicurezza e aggiornamenti;
- Un gruppo più rigido, intenzionato a tracciare una linea netta per modernizzare l’ecosistema hardware e software.
Alla fine, ha prevalso quest’ultima linea. Non solo sono stati cancellati documenti e pagine ufficiali che suggerivano un percorso di aggiornamento più flessibile, ma anche i workaround software, seppur rimasti tecnicamente accessibili, sono stati sconsigliati e non supportati ufficialmente.
Basti pensare che Microsoft stessa, in un documento di supporto, indicava come bypassare il controllo dei requisiti minimi di Windows 11, applicando una semplice modifica sulla configurazione del registro di sistema. Sebbene la versione odierna della medesima pagina non contenga più alcun riferimento per scavalcare i controlli di compatibilità effettuati da Windows 11, resta ancora oggi pienamente possibile installare Windows 11 su un PC non compatibile. È un retaggio di quell’Hard Floor che Microsoft aveva intelligentemente previsto.
Che poi, cosa poco nota, esiste un cortocircuito non trascurabile: Windows 11 si installa da zero anche su PC con CPU non compatibili mentre invece, se si effettua un aggiornamento da Windows 10, il controllo sulla CPU installata è effettivamente posto in essere. Con un semplice trucco, però, è possibile disporre un aggiornamento in-place a Windows 11 dei sistemi che non supportano i requisiti.
Impatti economici e strategici: chi ci guadagna e chi ci perde
Il “cambio di registro” voluto da Microsoft si è rivelato un’arma a doppio taglio. Se da un lato le aziende possono essere orientate a sottoscrivere abbonamenti di aggiornamento esteso per Windows 10 o a rinnovare il parco hardware, dall’altro lato i consumatori e le piccole imprese – che rappresentano una fetta enorme dell’utenza – sembrano lasciati a sé stessi.
La società di Satya Nadella ha anche provato a “rimediare” offrendo abbonamenti gratuiti Extended Security Updates (ESU) per un anno, fino al 13 ottobre 2026, ma solo per utenti consumer con account Microsoft, senza estendere realmente il supporto o semplificare la scelta.
Si crea così una situazione paradossale: per i grandi clienti aziendali, Microsoft ha interesse a prolungare artificialmente la vita del sistema obsoleto dietro pagamento, mentre per gli utenti singoli si punta più a spingerli verso Windows 11 o verso nuovi dispositivi, creando però confusione e insoddisfazione.
Un’azienda che per decenni aveva costruito il suo successo sulla stabilità, la retrocompatibilità e il rispetto degli utenti, ha improvvisamente cambiato le carte in tavola, senza fornire alternative chiare o un piano di transizione ragionevole. Ciò rischia di minare la fidelizzazione e aprire la porta a competitor alternativi, specie in ambito business dal momento che le imprese privilegiano ambienti stabili e prevedibili.
Conclusioni: cosa avrebbe potuto fare Microsoft
A nostro avviso, Windows 11 non doveva essere un “controllore” incaricato di rendere immediatamente e improvvisamente obsoleti PC e hardware ancora perfettamente funzionanti e in grado di supportare caricamento ed esecuzione del nuovo sistema operativo: abbiamo detto che Windows 11 funziona bene anche con le CPU Celeron di oltre 11 anni fa. Anzi, lo fa addirittura meglio di Windows 10.
Si sarebbe dovuto puntare sulla compatibilità di Windows 11 con il vecchio hardware (con l’eccezione dei chip che non supportano l’istruzione POPCNT e le estensioni SSE4.2), non lanciarsi in “sparate” approssimative sulla velocità di Windows 11 rispetto al predecessore.
Sarebbe bastato mantenere il Soft Floor e permettere aggiornamenti più estesi su macchine ancora valide, accompagnando gli utenti verso nuove tecnologie con supporto e strumenti adeguati.
Il risultato sarebbe stato un ecosistema più sano, una base installata meno frammentata e un rapporto più saldo con clienti e partner.
Invece, la decisione presa quattro anni fa si è trasformata in un costo per tutti: per gli utenti, costretti a scegliere tra un sistema obsoleto o un investimento forzato; per Microsoft, autochiamatasi a gestire malumori, criticità e complicazioni che non giovano né all’immagine né al bilancio.