Le VPN (Virtual Private Network) sono spesso presentate come una soluzione definitiva contro tracciamento, sorveglianza e profilazione. Questa narrazione ha generato una distorsione pericolosa: la convinzione che una VPN equivalga all’anonimato. In realtà, una VPN è uno strumento di sicurezza del trasporto dati, non un sistema di anonimizzazione. Comprenderne il funzionamento interno, i modelli di fiducia e i limiti strutturali è essenziale per valutare quando una VPN aumenta davvero la sicurezza… e quando invece crea una falsa sensazione di protezione.
Cos’è realmente una VPN: uno strato crittografico, non un mantello di invisibilità
Dal punto di vista architetturale, una VPN introduce un overlay crittografico sopra lo stack di rete normalmente utilizzato. Il compito di una VPN è:
- Cifrare il traffico tra endpoint e server VPN.
- Mascherare l’indirizzo IP pubblico dell’utente verso i servizi remoti.
- Impedire a intermediari locali (ISP, hotspot pubblici, reti aziendali ostili) di ispezionare il contenuto del traffico.
Una VPN, tuttavia, non elimina l’identità applicativa. Non nasconde insomma l’identità dell’utente per le applicazioni e i servizi che usa, ma solo da dove si collega a livello di rete.
Più concretamente, se si accede a un sito con un account personale (Google, Facebook, email, e-commerce), il sito conosce l’identità dell’utente, anche con la VPN attiva. I cookie, i meccanismi di browser fingerprinting (schermo, lingua, font, GPU, fuso orario) e i dati conservati dall’app continuano a identificare lo stesso soggetto.
Anche senza un fingerprinting perfetto, i sistemi di tracciamento correlano orari di accesso ricorrenti, pattern di navigazione simili, sequenze di azioni ripetute, durata delle sessioni.
Allo stesso modo, eventuali pagamenti effettuati durante l’uso di una VPN fanno emergere l’identità dell’utente. Il pagamento crea infatti un legame diretto e legale con l’identità. Infine, ID hardware o software, identificatori mobili (IDFA, GAID), telemetria del sistema operativo, certificati o token persistenti possono loro stessi identificare l’utente. Anche cambiando IP, grazie alla VPN, il dispositivo resta lo stesso.
Anatomia di una connessione VPN moderna
La fase iniziale di negoziazione e autenticazione serve a stabilire fiducia crittografica. Client e server validano le identità tramite certificati o chiavi pubbliche, prevengono attacchi man-in-the-middle, definiscono algoritmi, curve ellittiche e parametri di sicurezza. Un errore in questa fase compromette l’intero tunnel cifrato (il collegamento protetto tra il client dell’utente e il server VPN), indipendentemente dalla forza della cifratura.
Scambio delle chiavi e derivazione dei segreti
Le VPN moderne usano Diffie-Hellman (classico o ECDH) per generare segreti condivisi temporanei. Il vantaggio è che le due parti coinvolte nella comunicazione (client e server VPN) possono concordare un segreto condiviso su un canale insicuro senza trasmetterlo direttamente.
Elementi fondamentali
- CSPRNG (Cryptographically Secure Pseudorandom Number Generator). Serve a generare valori casuali sicuri, come le chiavi private DH o ECDH. La sicurezza dell’intero scambio dipende dalla vera casualità di questi numeri.
- Nonces (numeri casuali unici per sessione). Sono valori temporanei usati una sola volta in ogni sessione. Prevengono i cosidddetti replay attack, cioè attacchi in cui un avversario registra messaggi legittimi e li ritrasmette per ingannare il sistema.
- KDF (Key Derivation Function). Dopo aver calcolato il segreto condiviso DH/ECDH, si applica un KDF per derivare più chiavi simmetriche indipendenti da un unico segreto. L’obiettivo è separare i contesti crittografici: una chiave per la cifratura dei dati, una per l’autenticazione (MAC) e una per eventuali operazioni di rekeying (rigenerazione delle chiavi durante la sessione). La separazione riduce il rischio che la compromissione di una chiave influisca sulle altre.
Concetto chiave: più chiavi indipendenti
Il risultato dello scambio Diffie-Hellman + KDF non è una singola chiave universale, ma un set di chiavi indipendenti: c’è infatti la chiave di cifratura che protegge la confidenzialità dei dati e la chiave di autenticazione che garantisce integrità e autenticità dei messaggi.
Perfect Forward Secrecy: un requisito minimo
La Perfect Forward Secrecy (PFS) non è un optional, ma una necessità imprescindibile. Senza PFS, infatti, la futura compromissione di una chiave privata permetterebbe di decifrare retroattivamente tutto il traffico precedentemente registrato. I dati archiviati oggi potrebbero diventare leggibili domani.
Le VPN robuste generano chiavi effimere e le distruggono immediatamente dopo l’uso, rendendo impossibile la ricostruzione delle sessioni passate e garantendo un livello di sicurezza molto più elevato.
Creazione del tunnel e instradamento
Dal punto di vista del sistema operativo, il tunnel VPN appare come una normale interfaccia di rete virtuale. Tuttavia, ogni pacchetto che vi transita è incapsulato, cifrato e autenticato prima di lasciare il dispositivo verso il provider Internet.
La sicurezza del tunnel si basa su chiavi separate per trasmissione e ricezione, contatori di sequenza per rilevare pacchetti duplicati o persi e meccanismi anti-replay per prevenire attacchi. Anche la gestione dell’MTU (Maximum Transmission Unit) è attentamente calibrata per evitare problemi di frammentazione, garantendo così un flusso dati sicuro e stabile.
Rekeying continuo
La sicurezza di una VPN non può essere statica. Per proteggere le comunicazioni nel tempo, i protocolli più avanzati ruotano periodicamente le chiavi, limitando l’impatto di una possibile esposizione e ostacolando tentativi di analisi crittografica prolungata.
Il processo mantiene attiva la forward secrecy anche durante sessioni prolungate, assicurando che ogni periodo di comunicazione sia isolato e indipendente dal precedente.
Protocolli VPN: i più vecchi non sono più sicuri
WireGuard rappresenta un vero cambio di passo nel mondo delle VPN. Il suo codice compatto, le primitive crittografiche moderne e l’handshake basato sul Noise Protocol ne fanno una soluzione estremamente efficiente e verificabile.
Il principale punto critico riguarda l’uso di chiavi statiche di identità, che i provider seri mitigano tramite tecniche come NAT multipli, mapping in RAM volatile e distruzione immediata dei riferimenti di sessione.
OpenVPN, pur meno agile, eredita la solidità di TLS. La sua complessità maggiore comporta handshake più lenti e overhead superiore, ma in cambio offre compatibilità estesa e resistenza ai blocchi, risultando ideale in contesti dove la robustezza e l’affidabilità sono prioritarie.
IKEv2/IPSec eccelle su dispositivi mobili grazie al supporto di MOBIKE, che consente di mantenere la connessione anche durante cambi di rete. Tuttavia, resta facilmente identificabile e bloccabile, dipende fortemente dall’implementazione del sistema operativo ed è soggetto a configurazioni errate, rendendo necessaria una gestione attenta.
I protocolli legacy come PPTP e L2TP/IPSec oggi non offrono più garanzie di sicurezza: la loro presenza come opzione principale segnala chiaramente un servizio VPN non aggiornato.
Privacy e anonimato: un equivoco comune
Molti utenti confondono la protezione del traffico con l’anonimato completo. Una VPN cifra i dati tra il dispositivo e il server, impedendo a provider Internet e altri osservatori di intercettare direttamente il contenuto delle comunicazioni, ma non fa sparire improvvisamente l’identità dell’utente. In pratica, il tunnel protegge la privacy del traffico, non quella personale. In un altro articolo abbiamo visto le differenze tra VPN e Tor: quest’ultimo, sì, punta sul concetto di navigazione anonima.
I principali vettori di identificazione restano intatti anche con una VPN attiva. Account autenticati, cookie persistenti, fingerprint del browser e dell’hardware, pattern comportamentali e metadati di pagamento possono rivelare chi si nasconde dietro la connessione. Persino le abitudini di utilizzo, come gli orari di accesso o la sequenza di visite ai siti, possono essere sufficienti a ricostruire profili identificativi.
Dal punto di vista forense o governativo, l’analisi del tunnel cifrato ha spesso un valore limitato: l’individuazione dell’utente avviene attraverso questi canali alternativi, non attraverso la semplice decifrazione dei dati trasmessi. Ciò significa che l’uso di una VPN deve essere considerato come un livello di protezione della privacy, utile per difendere il contenuto delle comunicazioni e la posizione geografica, ma non sufficiente a garantire anonimato assoluto o impunità digitale.
Certo è che con un po’ di attenzione (ma questo vale anche per Tor), se si evita l’uso del browser impiegato abitualmente e si naviga con VPN tramite la modalità di navigazione in incognito, evitando allo stesso tempo di fare login su qualsiasi servizio, allora l’esperienza sul Web può essere certamente più anonima.
Fiducia: il vero punto critico
Quando si sceglie una VPN, la vera questione non è la tecnologia, ma la fiducia. Usare una VPN significa spostare la responsabilità dalla propria rete all’operatore del servizio: in altre parole, si affida a terzi la gestione di dati personali e riservati.
Un provider VPN può tecnicamente conoscere l’indirizzo IP reale dell’utente, il volume di traffico generato, le destinazioni visitate e persino i timestamp delle connessioni. In assenza di misure concrete, questa conoscenza rappresenta un rischio reale per la privacy.
Per valutare l’affidabilità di un provider VPN, le promesse pubblicitarie hanno scarso valore. Ciò che conta sono i fatti verificabili: precedenti audit indipendenti, architetture progettate per non conservare dati (RAM-only), politiche trasparenti e verificabili riguardo la gestione delle informazioni e la struttura societaria.
I provider VPN seri documentano chiaramente come sono trattate le sessioni e quali dati vengono distrutti immediatamente, riducendo al minimo la possibilità di esposizione o abuso.
In sintesi, la fiducia è il vero punto critico delle VPN: la sicurezza tecnica da sola non basta. Anche la migliore crittografia perde efficacia se il fornitore del servizio non rispetta principi rigorosi di gestione dei dati, trasparenza e auditabilità. Per questo motivo, l’utente informato deve scegliere un provider che dimostri concretamente di meritare fiducia, non solo a parole ma attraverso prove tangibili e verificabili.